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01.03.2018 La Chiave di Sophia #5

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Una mano sugli occhi. Un sipario calato. Una palpebra chiusa attraverso la quale guardare il mondo.

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Ci sono parole destinate a vivere una doppia vita. Perché il loro suono coincide esattamente con quello di un’altra parola e se pronunciate senza essere guardate arrivano ad assumerne la forma. Tra queste, solo pochissime si immedesimano in quel suono condiviso al punto da rubare a quella parola anche il significato, e in alcuni casi sostituirlo al proprio. E’ in queste parole che due mondi diversi si trovano a convivere dentro ad un’unica sequenza di lettere.  Per sempre.

Aître è una di queste.
Cinque lettere in fila indiana. Lettere che traghettano in qualcosa di altro, inaspettato, al quale rubano forma e significato.
Traghettata da una particolarità fonetica che in francese “rovescia una nozione di luogo su una questione di essere” 1 questa parola anacronistica esce dalla sua dimensione materiale e si abbandona ad una dimensione che perde ogni consistenza. Nata per indicare il luogo della dimora, finisce “per designare l’intimità di un essere, il suo foro interiore, l’abisso stesso del suo pensiero”. 2
Aître diventa dimora del corpo e dimora del pensiero. Uno spazio dove la dimensione dell’abitare può vivere la sua doppia vita.

Mi piace pensare a questo spazio come al vuoto racchiuso in uno stelo di bamboo, quello che nell’antica favola giapponese Storia di un tagliabambù diventa dimora della principessa Kaguyahime, dea della Luna.
Entrambi organi concavi, la parola aître con il suo luogo e l’essere che contiene, e lo stelo di bamboo con la sua pelle e l’anima che lo abita, custodiscono uno spazio intimo che si muove tra il materiale e l’immateriale. Uno spazio che in questo movimento nasce una seconda volta.
Diverso.

 

Ci sono parole destinate a vivere una doppia vita.
E poi ci sono spazi che a quelle due vite concedono dimora.
Spazi traghettati verso altre, inaspettate dimensioni, come quelle parole pronunciate senza essere guardate.

La Great Bamboo Wall House  è uno di questi.
Luogo che si fa condizione. Luogo e condizione insieme.
Luogo che si rovescia nell’essere. Corpo che diventa esperienza. E poi pensiero.
Sintesi poetica dove la parola aître perde il suo anacronismo e ritorna. Dove la leggenda della principessa Kaguyahime diventa realtà.

Spazio avvolto da una pelle di bamboo che ne sfuma i contorni.
Spazio che si muove tra il materiale e l’immateriale, dall’oggetto costruito al soggetto che lo abita.
Spazio che in questo movimento si dissolve e rinasce da un’architettura che annulla se stessa, si sbriciola in frammenti che introducono una nuova condizione dell’abitare. Una condizione percettiva che rigenera nuovi significati nelle cose di sempre attraverso percorsi avvolgenti che introducono a esperienze impreviste e spaesanti.

Cancellare l’architettura fino al punto di sostituire il progetto di oggetti con l’ideazione di fenomeni, esperienze che si dispiegano nel tempo in una percezione soggettiva dello spazio.
Cancellare l’architettura frantumando, sminuzzando, sbriciolando la sua pelle fino a farla diventare un assemblaggio di particelle relative e mutevoli che danno forma ad uno spazio che non ha forma. Che ha perso corpo e gravità. Relativo e mutevole.
Vivo.

Frantumare, sminuzzare, sbriciolare la pelle. Ridurre l’architettura a quella pelle fino ad innescare un’inversione della percezione. Dove la visione diventa introspezione. In uno spazio che si fa respiro. Un respiro da guardare ad occhi chiusi. Da toccare, ascoltare. Sentire.
Uno spazio che si fa condizione. E in questa condizione rinasce.
E’ in questa poetica della sparizione che lo spazio cavo dell’architettura traghetta verso lo spazio intimo del pensiero, in un processo di dissoluzione dell’architettura stessa che lo ha generato. 

“Quando sono totalmente ridotti in particelle, i materiali diventano effimeri, come arcobaleni. Talvolta si presentano in modo definito come oggetti ma basta un momentaneo cambiamento di luce, o lo spostamento dell’osservatore, perchè si disperdano immediatamente come le nuvole e si dissolvano come foschia. Le lamelle diventano all’improvviso trasparenti e scompaiono.” 3
E’ qui che l’architettura svanisce e sublima la sua consistenza. E’ qui che la pelle di bamboo, scomposta in lamelle da Kengo Kuma nella Great Bamboo Wall House, si mette a nudo, rivela la sua transitorietà e fragilità. La sua essenza più intima. La sua anima.
E’ qui che lo spazio avvolto da quella pelle si mette a nudo a sua volta. Rivela a sua volta la sua transitorietà e fragilità. La sua essenza più intima. La sua anima. E rinasce. 

E’ qui che il luogo rivela il suo essere.
In questa superficie porosa dove materia e vuoto, luce e ombra si incontrano.
In questa pelle frantumata, sminuzzata e sbriciolata dove si manifesta quel traghettare di senso che la parola aître si limita ad enunciare.
E’ una pelle fessurata, perforata, tagliata che diventa intreccio, tessitura.
E’ montaggio, accostamento, incastro di particelle che diventa organo vivente, filtro osmotico, mucosa.
E’ una mano sugli occhi.
Un sipario calato.
E’ la palpebra chiusa di Giuseppe Penone, quel “velo che ci nasconde la luce, che ci allontana dal mondo visibile e ci permette, nell’oscurità vibrante che crea, di concentrarci nella parte più intima del nostro essere”. 4 E’ la palpebra chiusa attraverso la quale guardare il mondo, è “lo sguardo rivolto verso l’interno di sé, il rimanere confinati nell’oscurità del proprio foro interiore per vedere, del mondo visibile che ci circonda, l’essenza”. 5 

A questo sguardo interiore Kengo Kuma ha dato forma.
A questo spazio avvolto da una pelle che con rara poesia racconta ciò che aître significa: “non ciò in cui abitiamo ma ciò che ci abita e ci incorpora allo stesso tempo”. 6 E quella pelle è tutto ciò che abbiamo per entrare in contatto con entrami. Un velo che separa ma in qualche modo sempre congiunge.
Oltrepassare quella pelle di bamboo è entrare ad occhi chiusi nello spazio cavo che ci contiene. E’ abbassare le palpebre, penetrare la nostra stessa pelle ed entrare nello spazio che conteniamo.
La luce ci invade la testa e proietta le immagini del nostro pensiero sulla volta del cranio, sull’involucro che ci avvolge, sull’interno della pelle che diventa contenitore del nostro pensiero. “La pelle diventa tamburo, strumento musicale, poetico.”  7
Attraverso quella pelle guardiamo il mondo, dall’interno di uno spazio che ci contiene e di uno spazio che conteniamo. Scatole di proiezione di ciò che ci circonda, riflettono un paesaggio interiorizzato, che non ha più bisogno di essere guardato. E’ il “paesaggio all’interno del quale pensiamo. E’ il paesaggio che ci avvolge. Un paesaggio da percorrere, tastare, conoscere con il tatto, da disegnare punto per punto, come il battere del bastone del cieco decifra lo spazio che lo circonda.”  8

Un paesaggio dove perdersi.
Per cercarsi nell’essenza delle cose.

Un paesaggio nostro.
Da guardare dall’interno.
Ad occhi chiusi.

Sottopelle.

 

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1-2-6  Georges Didi-Huberman in: Giuseppe Penone, catalogo della mostra, Hopefulmonster editore, Torino, 1997
3  Kengo Kuma in: Luigi Alini, Kengo Kuma – opere e progetti, Edizioni Electa, 2005
4-5  Guy Tosatto in: Giuseppe Penone, catalogo della mostra, Hopefulmonster editore, Torino, 1997
7-8  Giuseppe Penone in: Giuseppe Penone, catalogo della mostra, Hopefulmonster editore, Torino, 1997

 

immagine di copertina . Great Bamboo Wall House, Cina _ ph. Lisa De Chirico