linee tratteggiate a perdere

21.06.2017 La Chiave di Sophia #3

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Ogni viaggio ha il suo bordo, la sua linea tratteggiata fatta di pensieri frammentati che si susseguono sconnessi. Sono parole abbozzate e immagini evocate che una dopo l’altra, in fila indiana, tracciano la linea di confine lasciando fra di esse gli spazi per sconfinare.

Questi sono i pensieri frammentati che tracciano il bordo del mio viaggio.
Questa è la mia linea tratteggiata a perdere.

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Davanti a un’immagine sento la mancanza di quello che è rimasto fuori dal perimetro inquadrato.
L’immagine alza a confine i bordi e a me viene voglia di oltrepassarli.” 
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Lo stesso mi succede con la parola.
Davanti alla parola, ostinata in ogni suo tentativo di afferrare ciò che l’immagine esclude rendendo visibile ciò che agli occhi non è, la mancanza di quello che rimane fuori dal perimetro che inquadra si fa più ingombrante e la possibilità di oltrepassarne i bordi meno probabile.
Nel tentativo di oltrepassare i limiti entro i quali l’immagine si chiude, la parola ne impone altri entro i quali chiude se stessa.

La parola traccia perimetri.
Definisce i confini entro cui raccontare.
Sceglie le giuste lettere per poterlo fare.
Disegna il bordo entro cui stare senza mai staccare la matita dal foglio, una linea continua.
Per farlo seleziona. Nel farlo esclude.

Il viaggio prende quella linea e la sposta un po’ più in là.
Abbraccia ciò che esclude. Allontana il confine.
Disegna il bordo incerto entro cui si muove, una linea tratteggiata a perdere dove ogni tratto è un pezzo di quel bordo e ogni spazio il vuoto sufficiente per uscire e oltrepassarlo.

Il viaggio ha il bordo tratteggiato, un singhiozzo di parole che trattiene per poi lasciar andare.
Ogni pezzo di bordo è una parola che lo racconta.
Ogni vuoto è il respiro sufficiente ad alleviare la mancanza di ciò che la parola non riesce a raccontare.

 

 

Bianco

Ho conosciuto il bianco.
Fossile sulla roccia.
Colata di gesso rappreso a calco della scogliera.
Scogliera dal bordo incerto, dove ogni incertezza è un inciampo del tempo. Naufraga incagliata nel mare, pezzo di ferro lasciato arrugginire all’acqua, imbrunire al sole, violentare al vento.

Così ho conosciuto il bianco.
Ritagliando con lo sguardo il bordo nero di una scogliera.
Un punto fermo a interrompere quella linea nera incerta che dal mare sale al cielo, a rallentarne gli inciampi del tempo, ad indicare che solo lì la terra tocca il cielo passando per il mare.

Un piccolo luogo di preghiera.
Sopra una piccola croce.
Sopra una piccola campana.
Una mano dal cielo.
Bianca.

Così ho conosciuto la bellezza.
Bianca.
Piccola forma perfetta che non inciampa nel tempo. Che l’acqua non arrugginisce, il sole non imbrunisce, il vento non violenta.
Ho conosciuto la bellezza di un bianco che l’acqua riflette, il sole accende, il vento smussa. Un bianco che ha il colore del suo cielo e del suo mare e il brunito della terra stampata in fronte dall’ultimo sole assieme alla salsedine.
È il bianco dell’intonaco grezzo che sa di salsedine e di mani sudate.

 

 

Terra

Ho ascoltato il colore della terra.

Questa ha la voce del bianco.
Il bianco delle case, delle piccole chiese e delle piccole croci. Delle ceramiche che portano in tavola cibi e bevande, delle camicie di cotone portate sotto le bretelle scure il giorno di festa e arrotolate ai gomiti appresso ai muli.

Questa terra canta l’azzurro.
Quello dei balconi chiusi in faccia al sole, pezzi rubati un po’ al cielo un po’ al mare, topazi donati da entrambi e infilati nelle dita delle case.
L’azzurro delle pergole al porto che non danno riparo dal mezzogiorno ma disegnano ombre danzanti al vento.
L’azzurro delle pennellate di un’artigiana signora che solletica il bianco scheggiato delle sue ceramiche, china sulle sue giornate.

Questa terra è un’orchestra che intona la roccia arsa che la spinge fuori dal mare. Dalla terra di siena fino alla terra d’ombra bruciata. La stesse note che colorano la pelle rinsecchita al sole dei suoi abitanti. Le stesse dei tavolini in legno ammucchiati fuori le taverne, nelle piazze e lungo le vie strette dalle case ammucchiate e dalle loro ombre, anch’esse ammucchiate.
Persino le ombre qui hanno quel colore.

Ogni cosa qui ha un colore.
L’odore del cibo, il suono di uno strumento a corda. Il bruciore del moscato quando scende e scalda.

Anche la lentezza ha il suo colore.
Basta fermarsi e aspettare per vedere quale.

 

 

Bouzouki

L’odore di moussakà esce dalla taverna e si insacca nella piazza del paese, condita di un pizzico di corde di bouzouki suonato da un vecchio giradischi.
Si avvicina l’ora del pranzo e le note pizzicate si infilano sotto le sedie appoggiate al muro bianco della taverna in attesa di un anziano assetato di qualche bicchiere di moscato o di qualche parola con cui riempire il bicchiere, o in attesa di un viaggiatore solitario affamato di un piatto di horta o di note pizzicate.
Un’orchestra di libri usati accatastati contro il muro in ogni possibile posizione regala colore al suo bianco, mentre le pagine ingiallite e salate si offrono distratte a chi per poco o per molto, su quelle sedie impagliate, aspetta il finire del giorno all’odore di moussakà e al suono pungente di un bouzouki suonato chissà dove.

 

 

Lentezza

Ho respirato la lentezza.
Quella che va a piedi nudi, nella luce sbiadita del primo mattino o della fine del giorno.
La lentezza che ha gli occhi socchiusi dei pensieri portati in grembo dal vento, un vento portato in grembo dal mare.
La lentezza che porta leggerezza e chiede silenzio. Quello della schiuma che si dissolve per metà in ritirata e per metà asciugata dalla sabbia sfumando il confine tra terra e mare.

 

 

Leggero

Con un bagaglio leggero il viaggio sposta il confine.

La leggerezza dilata i bordi.
Il peso trascina indietro.
Ciò che ti trascini dietro appesantisce il passo.

Parto con poco. Parto con qualche libro.
Per ogni viaggio c’è un libro che ne dilata il bordo, allontanando il confine.
Ti si infila nello zaino da solo, senza invito. Tu sai che è compagno gradito, senza ancora averlo letto.

 

 

Sasso

Sono su un sasso spazzato dal vento.
Orfano di terraferma e di tempo.
Un’isola che ha sciolto il nodo lasciando il porto.
Ha portato in mare i pochi uomini che ora la abitano. Ha portato caffè densi di fondi, luci appese come mollette ai fili tesi tra le tamerici nella piazza del paese e linee dritte e dure di case addolcite dal vento caldo che ne consuma i contorni.
Ha portato il suo bianco, il suo bouzouki, la sua lentezza e la leggerezza.

Staccandosi dalla terraferma ha trascinato con sé un pezzo di cielo.
Il suo.
E in quel pezzo di cielo ho trovato il mio.

 

 

Ogni viaggio è una linea tratteggiata a perdere oltre la quale perdersi.
Una linea incerta da muovere nella geografia di una cartina o dei nostri pensieri nel tentativo di trovare il nostro posto nel mondo.
O il nostro mondo in ogni posto.

 

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1   E. De Luca, La natura esposta, Feltrinelli Editore Milano, 2016

 

immagine di copertina . isola di Folegandros, Grecia, 20.09.2016 _ ph. Lisa De Chirico